Set e Setting sono due parole prese dalla cultura delle esperienze psichedeliche.
Sebbene in Italia certi argomenti siano tabù, avrò comunque il piacere di esporre meglio questi concetti e far capire come la loro interpretazione sia importante anche nel mio lavoro, in quanto possono avere un significato universale.
Quando ci si accinge ad avere esperienze psichedeliche, set e setting sono due aspetti che tendenzialmente creano un discrimine tra quella che può essere una buona esperienza e un ‘bad trip’, ossia un cattivo viaggio.
Per set si intende sia la disposizione mentale di colui che sta per intraprendere l’esperienza (ha paura? È euforico? Depresso? Quieto e pacifico?) sia le aspettative che uno ha riguardo ciò che potrà accadere. In sostanza, è come ci si sente e come ci si pone nei confronti di ciò che si va a fare.
Il setting rappresenta invece l’ambientazione. Quindi, se il set è l’aspetto interno, il setting è quello esterno. Nel caso specifico dell’assunzione di uno psichedelico, ad esempio, c’è una differenza abissale tra una passeggiata nel bosco, un concerto caotico o una stanza quieta e accogliente, debitamente preparata.
Ricordo quando studiavo come barman. Il maestro Bruno Vanzan, in maniera del tutto sincera, una volta ci disse questo: “Immaginate di essere a Milano, in una classica giornata uggiosa, che fa sembrare tutto ancor più grigio. Per sbollire la giornata in ufficio, entrate in un locale e ordinate un mojito. A preparare questo mojito, ci sarà il barman migliore del mondo, con il ghiaccio fatto della migliore acqua, il rum migliore, la menta biologica più buona che c’è e lo zucchero più raffinato. State ora bevendo il vostro mojito e, se siete fortunati, il locale avrà un’ampia vetrina da cui poter osservare il grigio scenario milanese. Per quanto quel mojito sia un prodotto di eccellenza, per voi sarà solo un buon cocktail.
Ora, immaginatevi a Cuba, in spiaggia, seduti su una sedia sdraio al tramonto, mentre bellezze esotiche passeggiano e il mare fa da sfondo. Arriva il vostro mojito, la menta è stata raccolta selvatica vicino alla discarica, il rum è tagliato con benzina e il ghiaccio, beh non vuoi sapere come hanno fatto il ghiaccio… In ogni caso, quello sarà per voi il miglior mojito del mondo”.
Ecco come possono entrare in gioco i concetti di set e setting in un’esperienza semplice, alla portata di tutti.
La cultura qualunquista però, che trae le sue verità dal ‘sentito dire’ (in Italia, ne siamo esponenti di spicco), tende a relegare le esperienze psichedeliche tra le esperienze di droga e a prenderne le distanze.
Tali esperienze però sono un retaggio millenario dell’uomo, così come quelle legate a sostanze quali il miele delle api dell’himalaya sacro ai Kulung, l’ayahuasca dei popoli della foresta amazzonica, il peyote e il rospo del deserto di Sonora (la cui molecola fu isolata proprio da un ricercatore italiano nel 1965) utilizzati dagli ‘uomini medicina’ dei Nativi Americani o la psilocibina contenuta nei funghi (recentemente legalizzata in Australia e oggetto di importanti studi nel Regno Unito per il trattamento delle sindromi depressive).
Senza andare troppo in là nel tempo, si può guardare ai primi del ‘900 per vedere come sostanze di questo tipo vennero usate in psicoanalisi (proprio per le ragioni che la scienza moderna sta riscoprendo) e poi soppiantate a favore degli psicofarmaci.
La questione è che non ci si può limitare a classificare tutto indistintamente come droga. Tra psichedelico e psicofarmaco, infatti, c’è una differenza abissale.
Lo psichedelico è una delle chiavi che dà accesso alla nostra interiorità – quella che i The Doors chiamavano ‘le porte della percezione’, ispirandosi a un saggio breve di Aldous Huxley del 1954. Questa porta può essere varcata solo lasciando momentaneamente da parte il corpo, praticando meditazione pura e semplice, lunghi digiuni o anche attraverso l’esaurimento fisico e il dolore. Lo psichedelico dà la possibilità di affrontare eventuali traumi pregressi ed eventualmente risolverli; non evade il problema ma fa guardare in faccia il problema – è infatti un’esperienza davvero forte, di cui sconsiglio sia l’uso ludico sia l’uso non guidato.
Lo psicofarmaco è sostanzialmente un sedativo, non fa affrontare il problema, lo seppellisce
insieme alle emozioni e crea dipendenza.
Probabilmente, a livello farmaceutico, una sostanza risolutiva è molto meno interessante di una che invece tiene schiavo, cliente per tutta la vita. Qui, la mia malizia (forse) domanda in modo provocatorio: è per questo che certe sostanze sono illegali e altre no?
Detto ciò, sarebbe estremamente superficiale non dire anche che questi processi, proprio per la portata delle forze che sprigionano, devono essere trattati con le giuste riserve per non risultare nocivi.
Ho aperto questa parentesi che a primo avviso potrebbe risultare lontana dal mio lavoro, oltre per augurare che ognuno scopra da sé e nella modalità che più gli si addice le possibilità che il ‘mondo oltre la soglia’ ha da offrire, ma soprattutto per spiegare il mio proposito di strutturare l’intera sessione di allenamento prendendomi cura della persona, in modo che sia nel giusto set mentale e che l’ambiente offra il setting migliore di luci, suoni ed esercizi, per rendere l’esperienza quanto più completa ed evolutiva possibile, sotto tutti i punti di vista.