Una delle cose più vere e opportune che forse siano mai state dette riguardo allo zen ritengo sia questa: “Chiunque immagini di aver spiegato lo zen lo ha solo minimizzato, non può essere costretto in una definizione, proprio come il vento non può essere chiuso in una scatola senza che cessi di esser vento“.
Considerata la premessa, non sarò io ad avere la pretesa di spiegarlo. Tuttavia, mi cimenterò nel tentativo di alcuni chiarimenti, perché esistono equivoci spesso paradossali sul tema e perché, in altri approfondimenti, ho toccato la materia, esponendo concetti che arrivano da questo mondo.
Per iniziare, vorrei sfatare il mito che essere zen significa essere dei placidi “sacchi di patate” imperturbabili. I testi zen, infatti, sono ricchi di maestri che impartiscono le loro lezioni con versi, grida senza senso e bastonate – nella cultura buddista, dicono ci siano soggetti arrivati alla buddità uccidendo. Vivere secondo i principi zen non significa neanche seguire necessariamente strade di rinuncia, povertà e mortificazioni. Questi sono equivoci nati da una comprensione parziale.
Gautama stesso, dopo anni di ascetismo, fece un passo indietro (cioè avanti), capendo che stava solo deteriorando il suo corpo con degli inutili supplizi.
A tal proposito, riporto le parole di Watts: “il più temibile dei nemici dell’uomo è il desiderio che viene disprezzato per nessun’altra ragione se non quella di non essere in grado di poterlo soddisfare […] Niente è più facile che rinunciare al mondo perché si è incompetenti negli affari del mondo, non c’è saggezza nel disprezzare le ricchezze o il piacere dei sensi poiché non si dispone dei mezzi per appagarlo […] se esiste desiderio per queste cose e se quel desiderio è ostacolato dalle circostanze, aggiungere l’autoinganno alla frustrazione è come scambiare un inferno minore per uno maggiore”.
Strettamente legato al pensiero zen, ma altrettanto inesprimibile, è il concetto di Tao (letteralmente la Via). Possiamo provare a pensarlo come il tutto. Ma, ancora una volta, provare a definirlo sarebbe ridurre il creatore a creatura, perdendone quindi l’essenza stessa e creando una situazione paradossale. I vari tentativi di decodificare il Tao sono inutili, poiché ogni metodo implica un fine e non si può fare del Tao un fine più di quanto “una freccia non possa puntare a se stessa”, come direbbe Watts.
Ecco l’importanza del principio del wu-wei, quel non fare nulla, che è l’unica cosa che ha realmente efficacia, quella non azione che nasce dal serio tentativo di rinuncia o di accettazione di sé, e l’umiliante scoperta che tutto ciò è impossibile.
Ed è proprio quando scopro di non potermi arrendere che mi sono arreso.
Da quando la cosiddetta cultura New Age ha portato in occidente questi immensi concetti, sono nati paradossi come quello di provare ad accettare se stessi al fine di essere diversi.
Ecco perché essere zen non vuol dire essere una statua di sale, bensì essere in accordo con la propria più intima natura, con l’accettazione del fatto che le cose sono proprio come devono essere, acquisendo così la pace e la leggerezza che solo la rinuncia derivante dalla comprensione di un limite impossibile può dare.
Ciò che possiamo fare, invece, è conoscerci e, se siamo tigri, non metterci forzatamente nei panni di un agnellino (o viceversa) ed essere invece in accordo con la vita e imparare ad accettare ciò che la vita è – non come dovrebbe essere.
Un’espressione zen dice, appunto, che l’uomo perfetto è come uno specchio: non rifiuta nulla e non trattiene nulla, riceve senza trattenere. Molti però hanno frainteso…
Anche nella cultura cristiana, per esempio, abbiamo la pratica della povertà e dell’elemosina, ma questo deriva da un principio di non attaccamento alle cose terrene e transitorie, del non confondere un mezzo con un fine. Vari guru e profeti disponevano di immense risorse, altrimenti non avrebbero potuto fare ciò che hanno fatto, ma tali risorse erano per loro solo strumenti – forse l’universo ha elargito loro così tanta abbondanza proprio perché queste figure non avevano come obiettivo ultimo il fatturato.
Oggi però sappiamo che la situazione è generalmente questa: chi va in cerca di profitto, nel migliore dei casi, si chiede anche come può essere utile al mondo ma, alla fine, quello che viene venerato rimane comunque il dio denaro.
Perchè il Monkey King
Il Monkey King è il personaggio che più sento rappresenti me e il mio lavoro in quanto vero figlio degli elementi. Nasce da un uovo partorito da una montagna, ha un animo combattivo e focoso Leggi tutto…