“In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.”
Vangelo di Giovanni 1,1-18

Nel mondo odierno, si è perso molto di quello che potremmo chiamare “il potere della voce”. Se oggi proviamo a digitare “il potere della voce” su Google, troviamo un’infinità di materiale riguardo quelli che si fanno chiamare vocal coach, insieme ad approfondimenti sul fatto che, tramite le giuste tecniche di gestione della voce, modulando ad esempio il tono e il ritmo, si può risultare più coinvolgenti, più convincenti. Sono essenzialmente tecniche di public speaking
e marketing.

La voce è prima di tutto suono, quindi vibrazione e, in quanto tale, esercita un’azione fisica non solo sul mondo esterno ma anche sul corpo che la emette. Prima di essere produzione di un suono, l’emissione stessa è infatti un’azione motoria e comporta un coinvolgimento corporeo che, con determinati accorgimenti, può risultare benefico.
Molte culture primitive attribuiscono al canto il potere creativo di generare il mondo materiale – forse è per questo che il loro canto è così pieno e armonioso. Tutte le antiche tradizioni delle varie culture sono depositarie di questa credenza.

Nei monasteri buddisti, la voce è tenuta in massima considerazione: gli allievi seguono per lo più la regola del silenzio e anche il maestro soppesa attentamente le parole. Le preghiere e i sutra sono quasi cantati, riprendendo le modalità del mantra, un’antichissima pratica vocale dalle molteplici funzioni e dagli innumerevoli risvolti.
Un’altra usanza di origine orientale, indicativa del potere della voce, è il kiaijutsu: il kiai, che potrebbe sembrare una sorta di urlo, è presente in quasi tutte le discipline tradizionali giapponesi. Il termine kiai è composto da due ideogrammi: “ki” significa “energia vitale”, mentre “ai” sta per “armonia”. L’accostamento dei due concetti si riferisce all’emissione della voce, utilizzata come una sorta di forza armonizzante, capace di imprimere una direzione comune a intento mentale e impegno fisico. Nelle arti marziali, il kiai fa da tramite tra la concentrazione mentale e la spinta fisica, entrambe necessarie per eseguire una tecnica perfetta. Nella meditazione, il kiai è utilizzato dai maestri con varie finalità: prima fra tutte, accedere a stati di coscienza più profondi e probabilmente ancestrali.

I gesuiti – custodi di una grande tradizione di esercizi spirituali -, durante i ritiri, propongono spesso momenti di riflessione incentrati proprio sulla voce: un’esperienza particolarmente significativa è quella del “giorno del silenzio” e del successivo “momento dell’urlo”. Il silenzio ci insegna a valorizzare la nostra parola, mentre il seguente momento dell’urlo, debitamente contestualizzato, assume l’aspetto di una catarsi, un affrancamento primordiale.

Nel cosiddetto mondo classico – parlo quindi dell’Antica Grecia -, alla negatività è associata non solo la bruttezza fisica ma anche la bruttezza della voce. La voce è, per gli antichi, immagine dell’anima e viene forgiata dall’anima stessa; ergo, un ributtante satiro non poteva fregiarsi di una voce delicata e armoniosa. Dunque, il nostro corpo e soprattutto la nostra voce anticipano il nostro essere, svelando ogni minima sfumatura della nostra personalità: l’immagine colpisce gli occhi, mentre la voce – o più in generale, il suono -, colpisce l’orecchio.

Nella dimensione sonora, abbiamo però un’unione della componente visiva e uditiva: i suoni, infatti, portano con sé immagini, dipingono nella mente dell’ascoltatore scenari, rievocano ricordi ed esperienze. In particolare, la musica, intesa come suono educato, ha il potere di veicolare immagini sonore simboliche, passioni ben delineate, di riprodurre sensazioni e addirittura situazioni. La voce si propaga e una voce cantante, perciò musicale e intonata, è la sublimazione del parlato, che coincide anche con una maniera di porgere la vocalità pura al massimo delle sue potenzialità espressive naturali. Chi canta stabilisce un contatto con l’ascoltatore, aprendosi a esso, divenendo fonte di emozioni – positive o negative che siano.

Il matematico Pitagora aveva individuato nella musica le medesime potenzialità del suono emesso dal moto degli astri, la cosiddetta “musica delle sfere”, udibile solo dai cuori e capace di influenzarli.

Il sanscrito, la lingua dello yoga, è un’antica lingua indo-ariana vibrazionale. Questo significa che è la vibrazione a dare valore alla parola. Le sillabe dell’alfabeto sanscrito, infatti, vengono definite mantrika, cioè “piccola madre”, perché danno origine all’energia e alla vibrazione.
Il sanscrito si può percepire non solo tramite l’udito ma anche attraverso tutto il corpo, grazie appunto alla vibrazione e all’energia (o frequenza) che produce.
Nella nostra quotidianità, siamo abituati a utilizzare le parole per descrivere, indicare, puntualizzare. Ma la lingua dello yoga fa molto di più. Non descrive solamente l’oggetto che vuole indicare bensì cerca di associargli una vibrazione, provando a raggiungere l’essenza più profonda di quell’oggetto. Potremmo dire che è una tecnologia spaventosamente avanzata, a mio avviso.

Il Xöömej, o khoomei, o canto di gola mongolo, è una tecnica vocale diffusa nei monti Altai e si basa su una specifica modalità di emissione sonora gutturale che consente di produrre simultaneamente due suoni. Nato con lo scopo di imitare i suoni della natura che hanno plasmato l’intera cultura mongola, il khoomei si è evoluto in un’arte musicale davvero magica.
A proposito di magia: uno dei cosiddetti dogmi dell’alta magia è il silenzio, proprio perché si ritiene che le parole abbiano un’efficacia fisica. Un’espressione che tutti conoscono, grazie ai cartoni animati, è Abracadabra, parola che deriva da Avrah KaDabra, che in aramaico antico significa “io creo mentre parlo”.

Questi sono solo alcuni esempi. Quel che è certo è che ogni cosa nell’universo è, prima di tutto, energia che si esprime su vari livelli vibrazionali. La voce può essere quindi definibile come un’estensione del corpo o, forse, sarebbe addirittura più corretto dire il contrario: il corpo è identificabile come un’estensione della voce. In ogni caso, la voce va esercitata, non per riuscire a incantare il proprio interlocutore ma per avere un approccio completo nei confronti della conoscenza di sé e della vita.

Di tanto in tanto, a tal proposito, mi piace includere nella sessione di allenamento qualche minuto in cui si lanciano urli nella maniera più forte e selvaggia che siamo in grado di fare. Ormai è difficile trovare contesti, a eccezione dell’infanzia, dove è possibile urlare – c’è chi, diventato adulto, non ha più avuto modo di farlo.
Provate a urlare in macchina. Non parlo di cantare ad alta voce ma di gridare con quanta forza avete in corpo, fino a perdere il fiato.

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