Tra la strada conosciuta e quella nuova, è mia indole scegliere sempre la nuova, a volte complicandomi estremamente la vita.
Quando ho lasciato la città per andare a vivere in campagna, anziché cercare lavoro nei campi professionali dove avevo competenza, ho ritenuto più opportuno fare prima esperienza nelle aziende agricole e poi nel mondo dell’edilizia, due settori per me nuovi ma che pensavo potessero darmi le conoscenze necessarie per gestire al meglio la mia nuova vita in quel contesto. Ovviamente, essendo l’ultimo arrivato, oltre alla difficoltà pratica di imparare tutta una serie di nuove nozioni e manualità, mi è spettata anche la gavetta. Da eterno novizio, però, c’è stato qualcosa che ho avuto così modo di affinare a ogni passaggio, ovvero l’arte di imparare.
Essendomi cimentato in svariati ambiti e molteplici contesti – oltre a quelli sportivi e professionali, anche artistici, come il canto e la recitazione –, ho avuto occasione di appurare che in diversi campi ci sono elementi comuni che favoriscono l’apprendimento. Per questo motivo, infatti, da adulto sono riuscito ad apprendere cose che non avevo avuto modo di imparare da bambino.
Ad esempio, dagli 8 ai 10 anni ero iscritto a una scuola calcio. Probabilmente, complice una scoordinazione già citata, non sono mai riuscito a fare più di quattro palleggi consecutivi, cosa che ho invece imparato a 28 anni – nel mio vecchio dojo, oltretutto.
In un percorso costruttivo, dovrebbe essere logico che, tra due individui di diversa età, il maggiore abbia più strumenti rispetto al minore, anche nelle fasi di apprendimento. La ragione per cui generalmente non sembra così è che, diventando adulti, perdiamo la dimensione del gioco e carichiamo tutto con una serietà e una pesantezza tipiche del mondo del lavoro, rendendo le cose molto più difficili. Questo accade perché il peso delle aspettative o sentimenti come la vergogna – che nasce dall’idea di non poter sbagliare –, ci irrigidiscono e ci rendono quindi effettivamente meno predisposti ad apprendere.
Un altro dei motivi per cui imparare è per noi un processo più impegnativo del dovuto è che le metodiche con cui si insegna qualcosa sono standardizzate e legate a idee prive di fondamenta. Parlo di “più impegnativo del dovuto” perché, se penso a un neonato, è straordinario vedere quante cose è in grado di assorbire con naturalezza, nonostante abbia a disposizione solo l’ascolto e l’osservazione. Comunque, è ovvio, ad esempio, che un bambino abbia una capacità di attenzione e di concentrazione che non va oltre una finestra di qualche minuto consecutivo. Di conseguenza, un esercizio prolungato, anche quindi solo di un’ora di lezione, ha ben poco senso. E gli adulti non fanno eccezione: quando si impara qualcosa di nuovo, è molto meglio “fare poco e spesso” piuttosto che “fare tanto e tutto insieme”.
Nelle mie lezioni preferisco spaziare tra diversi argomenti, dedicando a ciascun tema pochi minuti anziché ripetere magari la stessa tecnica per un’ora consecutiva. Questo è perché non assimiliamo mentre stiamo facendo qualcosa, bensì lo assimiliamo nelle ore successive o addirittura quando dormiamo. Gli stimoli, alla pari del cibo, vanno digeriti, e fare una scorpacciata serve a poco o nulla se non ad avere il mal di pancia.
Oltretutto, ognuno è diverso, fatto a suo modo; un buon insegnate deve in primis accorgersi di queste differenze e trovare per ogni alunno la strada migliore, per poi renderlo consapevole di quanto è stato fatto e farlo diventare maestro di se stesso. A patto che la lezione da imparare non sia il senso del sacrificio o la capacità di affrontare la frustrazione, una formula vincente è, come già detto, fare poco e spesso ma con leggerezza, giocosità.
Un ulteriore suggerimento è creare le giuste condizioni. Intendo dire che, sebbene la volontà sia un fattore determinante, bisogna anche guardare la fattibilità e l’accessibilità. Se, ad esempio, la palestra dei miei sogni è distante due ore di strada e sotto casa ho il garage dell’amico che usa i boccioni dell’acqua come bilancieri, probabilmente l’opzione migliore è comunque la seconda, poiché, se avrò modo di allenarmi tutti i giorni, la mia costanza verrà certamente premiata.
Altro consiglio: andare dritti al punto e, se non funziona attaccare da diverse direzioni ma, riprovare periodicamente l’assalto diretto. Esistono propedeutiche utili a imparare le cose più complesse ma, se non si prova ad arrivare al risultato finale che si vorrebbe ottenere, si finisce per girarci attorno in eterno.
A questo punto è importante chiarire che la ripetizione degli esercizi, sebbene io sconsigli ripetizioni eccessive in una singola sessione, è in realtà di fondamentale importanza sul lungo termine per rendere automatismi quelle azioni che prima ci erano aliene.
A tal proposito, Bruce Lee diceva: “Non temo l’uomo che ha praticato 10.000 calci una volta, ma temo l’uomo che ha praticato un calcio 10.000 volte.”
Tuttavia, mi permetto di precisare che il cosiddetto ascolto attivo, la presenza, resta sempre l’elemento cruciale, l’unico fattore in grado di determinare se una ripetizione a oltranza potrà portare o no i suoi frutti.
Acquisire degli automatismi non significa diventare degli automi. Dobbiamo sforzarci di essere attenti e percettivi nei confronti di ogni singolo gesto, altrimenti le informazioni acquisite avranno una natura superficiale e transitoria, non si fonderanno con il nostro corpo e saranno destinate a evaporare. Inoltre, nelle prime fasi dell’apprendimento è normale retrocedere anziché avanzare, ma questo non deve scoraggiare. Nel celebre libro “L’alchimista” di Cohelo, l’autore cita la cosiddetta “fortuna del principiante”: è un fenomeno comune, infatti, che i primi tentativi di pratica siano solitamente un gran successo; questo forse avviene perché, come sostiene l’autore, l’universo – o chi per esso – è come se cercasse di invogliarci, di stimolarci ma, superata questa prima fase, tutto si complica irrimediabilmente. Ci vorrà diverso tempo per riuscire di nuovo a recuperare quello stato di talentuosa innocenza.
A mio avviso, ciò avviene per quelle dinamiche che ho già citato, ossia che, quando iniziamo a fare qualcosa di nuovo, ci sentiamo ancora liberi di sbagliare; proseguendo, l’aspettativa si alza e diventa un ostacolo controproducente.
C’è un ammonimento che do in particolare a chi mi chiede di imparare a combattere: una volta iniziato il percorso, evitare il più possibile ogni tipo di scontro. Non si tratta
di un precetto morale ma di un consiglio pratico se non si vuol esser “presi a schiaffi”. Se le tecniche studiate non sono ancora automatismi, allora non sono efficaci; per eseguirle è richiesto un eccessivo controllo mentale che fa perdere quella necessaria istintività e quell’immediatezza che invece richiede il combattimento.
Ultima osservazione su cui voglio porre l’accento è il fatto che ogni cosa ha dei fondamentali su cui metter maggiormente l’attenzione. Cogliere e acquisire i fondamentali di una disciplina, che sono i suoi schemi motori base, catalizza enormemente il processo di apprendimento. Per intenderci: una casa è fondamentalmente un riparo, quindi con mura e tetto, il resto è accessorio; una macchina è fondamentalmente un mezzo di locomozione, quindi con volante, ruote e motore. Lo stesso vale per le discipline: ognuna ha un suo scheletro più intimo e delle parti accessorie. L’attenzione va quindi direzionata sul capire quali siano questi fondamentali e acquisirli per primi.
Sicuramente, anche l’arte dell’imparare ha i suoi fondamentali e le sue parti accessorie. Ciò che ho espresso qui sono i fondamentali che quantomeno io ho potuto cogliere dalla mia esperienza e, sempre per esperienza, mi sento di dire dal profondo del cuore che tutte le cose sono difficili prima di diventare facili, quindi non bisogna scoraggiarsi davanti alle difficoltà!