Una delle domande che più frequentemente mi viene posta, e per la quale non ho ancora una risposta, è: “Che arte marziale fai?”. La mia risposta, appunto, potrebbe essere: “Tutte e nessuna”.
La verità è che ciò che attualmente faccio, e di conseguenza propongo a coloro che intendono imparare a combattere, è una miscela composta dalle varie esperienze sportive e non sportive che ho incontrato lungo il mio percorso.
“Quindi fai MMA?”, “No”.
MMA, acronimo di mixed martial arts, è una disciplina ben precisa, che, sebbene preveda che il praticante possa utilizzare tutti gli stili di combattimento a lui noti, deve anche rispettare un regolamento che sancisce cosa si possa e non si possa fare. La questione più importante, che differenzia il mio lavoro dall’MMA, è il fatto che nella mia miscela sono presenti elementi presi non solo dalle discipline marziali ma anche da discipline che non c’entrano nulla con il combattimento.
Dato che ho chiarito cosa non è il mio lavoro, provo allora a dire, a grandi linee, di cosa si compone.
Per quanto riguarda il contesto strettamente marziale, tolta una parentesi di qualche anno di karate in tenera età, la mia vera formazione marziale è iniziata a 11 anni, con le prime esperienze di pugilato. In aggiunta, da adolescente, ho cominciato a praticare thai boxe, per poi integrare ulteriormente con il submission grappling – un composto di tecniche di leve articolari e proiezioni prese principalmente dal jujitsu brasiliano -, il judo e la lotta greco romana. Mi sono poi introdotto al mondo della capoeira da combattimento (la più diffusa è quella sotto forma di danza) e più recentemente ho iniziato lo studio delle armi bianche, con le tecniche di kali filippino, tiro con l’arco e lancio di asce e coltelli, per finire con il jeet kune do (la disciplina creata dal mitico Bruce Lee). Da studioso appassionato però, non ho disdegnato fare esperienza anche di altre arti marziali più tradizionali, come quelle derivanti dal kung fu.
Ma ciò che credo mi contraddistingua davvero è il fatto di aver preso elementi dal calisthenics, come alcune posture in grado di generare una forza portentosa, o aver attinto dal mondo del parkour e dell’equilibrismo e aver tradotto il tutto in chiave marziale.
Lo studio di testi di strategia militare e mentalismo mi ha fornito inoltre altro materiale utile ad arricchire il mio stile, dato che l’esperienza del ring mi ha insegnato che uno scontro tra due uomini non è molto diverso da quello tra due eserciti.
Con lo yoga, la subacquea e altre esperienze più esoteriche, ho allenato la capacità di autocontrollo, necessaria all’applicazione della strategia; mentre, concetti presi da esperti di sopravvivenza o da contesti militari (ho avuto, ad esempio, il piacere di ospitare lezioni di tattiche di guerriglia urbana, tenute dall’addestratore dei ranger stanziati in Africa) hanno aiutato a comporre e delineare il quadro complessivo.
La mia tendenza a cercare gli schemi fondamentali di ogni cosa che mi si palesi davanti mi ha portato a sintetizzare uno stile che non ha una connotazione ben precisa ma che è in grado di rispondere a più esigenze e contesti.
Cerco di trarre sempre l’universale dal particolare, il macro nel micro (come predicato dalla cosiddetta legge di analogia del mondo alchemico) o il “come in alto così in basso” che dir si voglia; prelevo ciò che funziona bene in alcuni contesti per trasportarlo in altri, dove può funzionare altrettanto bene grazie a elementi comuni. Ad esempio, la capacità di afferrare e tirare non cambia se parliamo di una barra da trazione o il braccio di un altro uomo.
Persino dalla recitazione si può ottenere qualcosa da riversare nel combattimento. Immaginate questa situazione: state combattendo e avete appena scagliato il vostro colpo migliore nel punto più vulnerabile del vostro rivale – la situazione ideale; il vostro avversario però non ha battuto ciglio, come se non vi avesse neanche percepito. E voi? In tal caso, verreste annientati senza esser stati colpiti, ogni vostra speranza di vittoria cadrebbe e, atterriti, finireste per soccombere dallo sconforto. Se però il vostro avversario avesse recitato? Ovvero: è stato così scaltro da aver intuito la vostra arma prediletta e ve l’ha lasciata usare, concentrando tutto il suo essere a non dar segno di
dolore.
È una recita, una tattica che mi è capitato di utilizzare e che, posso assicurarvi, ha sortito l’effetto sperato.
Quindi, per concludere, la mia disciplina marziale è una creatura in continua evoluzione, che non ha una forma precisa ma che, come l’acqua, si adatta alla forma del contenitore in cui si riversa (“Sii come l’acqua”, diceva appunto il buon Bruce) e che ha per legge fondamentale quella di Darwin a proposito dell’evoluzione, secondo cui non sopravvive il più forte ma chi meglio si adatta – e che ha più strumenti per potersi adattare, aggiungo io.