Dojo è generalmente un luogo in cui si praticano arti marziali – dove marziale è un termine di origine occidentale (da Marte, dio della guerra).
Dojo, invece, deriva dalla tradizione buddista cinese e significa letteralmente “luogo in cui si segue la via”. Non è quindi solo un posto in cui ci si allena. Ciò che lo differenzia da una palestra è proprio l’atteggiamento dei praticanti che si propongono, appunto, di seguire una via.
Quale via? Quella dell’esperienza condivisa dell’allenamento e dell’insegnamento reciproco.
Ad oggi non c’è stata persona da cui anche io non abbia imparato qualcosa. Sono convinto che l’unica maestra sia la vita, ciò che si sperimenta insieme, e che un buon insegnante non deve creare allievi, bensì formare altri maestri.
Lato mio, non ho la pretesa di essere un maestro né un sensei. Sono una persona che ha coltivato diverse competenze tecniche e cerca di far sì che chi è interessato possa acquisirle in un rapporto di mutuo apprendimento.
Sebbene io non sia cinese, non sia buddista e non pratichi il wushu tradizionale – ovvero la parte del kung fu che si occupa delle tecniche di combattimento e che potremmo tradurre con “tecnica di guerra” -, dojo è il termine che meglio sposa la mia causa, dato che, inoltre, non c’è un equivalente italiano che riesca a esprimere altrettanto bene il concetto in una maniera così diretta e contenuta.
Sono consapevole che prendere in prestito un termine orientale, usarlo fuori dalla sua tradizione e condensarci dentro concetti presi da altri contesti culturali possa sembrare poco serio. Così come sono consapevole che, se definisco dojo un luogo in cui proporre diverse discipline di varia origine, questo potrebbe farlo apparire qualcosa che, come si suol dire, non è né carne né pesce… ma, in fondo, io mi accontento di essere anche un gambo di sedano!

Categorie: Blog