Uno dei motivi che mi ha spinto ad abbandonare la città in favore della campagna è ovviamente l’avvicinamento alla natura.

Essendo nato a Milano, so bene come la città sia in grado di rapirti e snaturarti senza che neanche te ne accorga. Per mia fortuna, diverse esperienze mi hanno a più riprese portato a visitare e a vivere in luoghi ben poco urbanizzati, cosa che mi ha fatto assistere ogni volta a uno stesso processo: quando mi trovavo “fuori”, potevo vedere la follia della mia vita da cittadino di una metropoli, sempre a rincorrere qualcosa, immerso in smog e traffico, col tempo suddiviso tra l’essere chiuso in un locale e l’essere chiuso in casa, o chiuso in macchina. A volte, mi rendevo conto che magari era da giorni che non vedevo il cielo, avendo per la testa come unico pensiero il lavoro e gli altri “sbattimenti”, per dirla alla milanese.
È evidente che la maggior parte delle problematiche fisiche e mentali derivino dalle condizioni anormali che abbiamo stabilito per la nostra esistenza.

Ho avuto il piacere di vivere qualche mese in una spiaggia nel sud del Madagascar, dove aiutavo un amico ad avviare un centro di immersioni. Isolati dalla civiltà da un fiume che sfociava in mare, percorribile solo per brevissimi istanti a causa delle correnti, la nostra vita era quanto mai simile a quella dei nostri vicini, villaggi di pescatori e allevatori tribali.
Due considerazioni furono lampanti, come il sole riflesso sulla spiaggia.
La prima è che, senza fast food nelle vicinanze, connessione internet e con le gambe e le canoe come unici mezzi di locomozione, anche il più pigro tendeva ad avere un fisico statuario senza la necessità di andare in palestra.
La seconda è che i miei vicini pescatori, una volta pescato un buon “pesciolone” sufficiente a sfamare loro e la famiglia, passavano tranquillamente il resto della giornata oziando all’ombra di un arbusto, scherzando tra loro, probabilmente ridendo degli inutili sforzi che noi vazà (termine che usavano per indicare gli stranieri), cioè chiunque non avesse i propri antenati sepolti in quella terra, compivamo per mettere in piedi la nostra attività commerciale – qualcosa che per loro era probabilmente incomprensibile.
Ahimè, nonostante ogni volta mi sia ripromesso che, tornando a casa, non avrei più inseguito quel folle modo di vivere che ci porta a sacrificarci per cose che non meritano affatto il nostro tempo e il nostro sudore, sono rimasto sempre rapito dallo stesso incantesimo.

Tra le cose, sogno quindi di strappare sempre più persone dalle grinfie di questo maleficio.
Non credo serva citare i benefici riscontrati dalla scienza riguardo una semplice passeggiata di un paio d’ore in un bosco; non credo servano misurazioni tecniche per sapere gli effetti che la vista di una bella montagna, di un lago, di un deserto o di un semplice paesaggio collinare hanno su di noi.
Per quanto la città possa puntare a essere sempre più green, con i suoi giardini e boschi verticali, i ritmi e la mentalità della vita dell’uomo non compenseranno mai la vera immersione in un ambiente naturale né lo faranno mai se questo è frutto di una simulazione umana. Semplificando con un esempio: per quanto bello, per quanto grande, uno zoo non sarà mai come la savana.

Infine, una considerazione che nasce da una delle culture tradizionali che preferisco, quella dei Nativi Americani delle grandi praterie del nord America: queste popolazioni, che nel nostro immaginario rappresentano lo stereotipo dell’uomo amante della natura, non hanno nella loro lingua la parola natura. Questa mancanza non deriva dall’arretratezza della loro lingua, come comunemente ed erroneamente saremmo portati a pensare – le culture tradizionali sono molto più antiche della nostra occidentale e i loro linguaggi hanno avuto un tempo di sviluppo assai più lungo e complesso del nostro (basti pensare che, in Africa, ci sono realtà tribali che hanno ben 13 termini per la nostra parola amore!). Il fatto di non possedere la parola natura ha una motivazione puramente concettuale, poiché, per loro, tutto è natura, essi stessi compresi. Non essendoci dunque una distinzione, non è prevista una parola per denotare qualcosa al di fuori del “tutto comune”, non serve un termine apposito per sottolineare qualcosa di diverso. Il fatto che noi invece abbiamo necessità di descrivere con una parola ciò che consideriamo altro rispetto a noi è sintomo di una barriera che abbiamo messo tra noi e il tutto – e dico “sintomo” non a caso.

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